Dall’immigrazione emarginata al delitto

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Dall’immigrazione emarginata al delitto

Università Popolare UNISED | Criminologia, Scienze forensi, Neuroscienze e Security
Pubblicato da Sabrina Apa in Sicurezza e Legalità · 21 Ottobre 2014
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Secondo i dati Istat aggiornati al 30 settembre 2014, i detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane sarebbero 17.522, una cifra impressionante che porta a riflettere su come la legislazione italiana gestisca il fenomeno dell’immigrazione e sulle conseguenze che ne derivano nell’ambito del rapporto tra devianza e immigrazione. Invero, nella disamina di questa tematica, sebbene sia opportuno considerare sia l’eventualità che per alcuni migranti il percorso migratorio sia finalizzato all’esercizio di attività illegali, va rilevato come per moltissimi l’arrivo in Italia rappresenti la chimera di un futuro migliore. Di guisa che, nel momento in cui la più rosea aspettativa del migrante, si infrange clamorosamente sul dissesto del nostro Welfare State, incapace finanche di garantire un lavoro agli stessi cittadini, e viene altresì negata la richiesta di protezione internazionale alla quale in molti aspirano poiché provenienti da situazioni di violazione dei più basilari diritti umani, sia apra quel variegato scenario di possibili ricadute dell’evento migratorio. Invero, il migrante si trova esposto al rischio di coinvolgimento nella devianza, come autore o come vittima di reati, spesso in conseguenza ad un processo di esclusione, capace di contribuire alla costruzione di nuove figure di devianti, perché diversi, per usi e costumi, ma soprattutto per condizioni economiche e possibilità di raggiungere quel pieno sviluppo della persona proclamato dall’art. 3 della nostra Costituzione radicato nel principio di eguaglianza che trova il suo substrato nel valore primordiale e internazionale della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali.
Come sottolinea Vittorio Cotesta, "Quando parliamo di immigrati, noi parliamo di noi stessi in relazione agli immigrati", ne consegue che in quest’ambito, la categoria del crimine, già frutto di per sé della costruzione sociale, patisce le conseguenze della percezione sociale dell’altro, dell’estraneo, del diverso, innescando un meccanismo di selettività negativa nell’interazione sociale. Di guisa che, il processo di costruzione sociale della devianza, avendo il suo fondamento nella stigmatizzazione sociale, si configura allo stesso tempo come causa ed effetto della sua emarginazione.
Come ben evidenziato nella teoria criminologica della privazione relativa, la propensione alla delinquenza rappresenterebbe la risultante della percezione da parte di un gruppo etnico, in questo caso dell’immigrato tout court, della sua condizione di inferiorità rispetto al contesto sociale che assume come valore dominante l’uguaglianza delle opportunità. Ne consegue che, il fallimento dell’integrazione economico-sociale comporta per lo straniero uno stato di frustrazione tale, perché ritenuto senza via d’uscita, da poter generare l’escalation della violenza criminale. Da notare come la stessa Fondazione ISMU – Iniziative e Studio sulla Multietnicità -, abbia utilizzato questo approccio ai fini dello studio sulla devianza degli immigrati.

E’ opportuno mettere in evidenza come, l’ordine di considerazioni finora esposto, si possa rintracciare nella fattispecie che ha visto protagonista Adam Kabobo, il ghanese condannato a 20 anni di reclusione per l’omicidio di tre persone e il tentato omicidio di altre tre a Milano nel maggio del 2013. Ebbene, nelle motivazioni della sentenza che il 15 aprile 2014 ha condannato Kabobo, il Gup ha rilevato che "la condizione di emarginazione sociale e culturale dell’imputato è stata valutata quale concausa della patologia mentale riscontrata, nel riconoscimento della seminfermità mentale ed è stata quindi oggetto di adeguata considerazione ai fini della quantificazione della pena". Invero dalla stessa perizia psicopatologico-forense ad opera di due illustrissimi esperti, quali Isabella Merzagora e Ambrogio Pennati, si evince un quadro psicopatologico di tipologia gravemente psicotica, potenzialmente rilevante a fini dell’imputabilità. Il profilo delineato è compatibile con una malattia dello spettro schizofrenico, caratterizzata dalla compresenza di elementi cosiddetti positivi (delirio, allucinazioni), e negativi (ridotta espressività emotiva, alogia, avolizione, asocialità). Cosicchè: "La narrazione del periziando evidenzia una tematica delirante elementare, scarsamente strutturata, a contenuto a tratti persecutorio, a tratti megalomanico, che gli fa pensare di essere il creatore del mondo. La consapevolezza del disvalore sociale dei comportamenti reato (a volte denegati nella loro esistenza) è presente, anche se a tratti a forma ambivalente".

L’emergere nel soggetto, in balia di allucinazioni acustiche (secondo cui egli sarebbe il creatore del mondo), della consapevolezza della sua impotenza nel cambiare la situazione fattuale (dormire per strada, al freddo, senza cibo, senza persone cui fare riferimento), generandogli frustrazione e rancore, sfocia nell’episodio omicidario, con vittime scelte casualmente, come disperata richiesta di aiuto all’indifferenza della gente che, alla sua vista, si volta dall’altra parte, e come mezzo per porre fine, sperando di essere catturato, alle sue sofferenze. Invero, tale condizione di stress, esacerbando la patologia di base, ha aggravato la sintomatologia delirante, allucinatoria e la compromissione cognitiva (Arnsten Amy F.T., 2011; Weinberger DR & Harrison PJ, 2011).
Altresì interessante appare l’analisi criminogenetica e criminodinamica secondo la quale il comportamento omicidario risulta, nella fattispecie umana, funzionale alla soluzione di un’ampia varietà di problemi adattativi (Duntley JD, Shakelford T, 2008), di guisa che l’omicidio è percepito quale unica e potente strategia che conduce alla fine del conflitto/competizione (per l’acquisizione e gestione delle risorse utili al mantenimento di sé e del proprio status sociale). Nell’omicidio ad impatto disadattativo, come appare quello del caso di specie, sul pattern comportamentale, fisiologico, che normalmente è controllato da quello cognitivo che valuta il rapporto tra costi/benefici dell’azione, ha influito grandemente la patologia psichica. Secondo la perizia dunque, si è realizzata "la condizione di acting aut psicotico, ove anche le difese più elementari (nel caso in oggetto le allucinazioni rassicuranti) implodono: il soggetto in preda alla necessità di soddisfare i bisogni primari (cibo, sonno, protezione) e non in grado di soddisfarli per la limitatezza strutturale delle risorse emotive- cognitive e della confusione psicotica, mette in atto un comportamento predatorio primitivo finalizzato all’acquisizione di tali risorse, senza operare una valutazione razionale del rapporto costi/benefici di tale condotta".
Dall’analisi emerge, quindi, una capacità di intendere, (idoneità del soggetto a rendersi conto del valore sociale delle proprie azioni) grandemente scemata, ma non totalmente assente, e una sufficientemente conservata capacità di volere (attitudine dell’individuo ad autodeterminarsi e, quindi orientare gli atti compiuti in modo finalistico rispetto al significato percepito).
Alla luce delle considerazioni esposte, è evidente quale sia la sfida che si pone all’apparato legislativo, vale a dire quella tesa allo sviluppo di politiche sociali attente ai diritti di tutti coloro che, cittadini e stranieri, vivono nel territorio italiano, per garantire loro quelli che sono i fondamentali diritti della persona.

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